Integrazione sociale extrascolastica ed extralavorativa
L’espressione “integrazione sociale” nel suo significato più ampio comprende sia l’integrazione in famiglia che quella scolastica. In questo paragrafo ci limitiamo a considerare solo alcuni aspetti dell’integrazione sociale e cioè quelli che non si realizzano né in famiglia, né a scuola, né al lavoro.
A partire soprattutto dagli anni attorno al 1970 i Comuni (in quantità sempre crescente) organizzano Centri estivi (in località dello stesso comune e con frequenza diurna) o Soggiorni climatici residenziali per tutti i minori, compresi quelli con disabilità. Si tratta di una realtà così diffusa attualmente e acquisita da non aver bisogno di particolari commenti. Questa è una ottima occasione anche per i genitori. Vivere lontano dal proprio figlio può inizialmente creare un senso di vuoto (soprattutto nella madre), ma, con il passare del tempo, permette anche di “riprendere” gli aspetti della propria identità che in qualche modo erano stati offuscati dalla costante attenzione ai problemi del figlio e in qualche caso può aiutare a trovare uno spazio temporale e mentale in cui la coppia dei genitori può avere più tempo e disponibilità per sé e per il rapporto di coppia (e, se ci sono, per gli altri figli). Nella mia esperienza personale ho constatato che negli anni attorno al 1970 e 1980 alcune madri erano troppo disorientate da questa libertà e andavano troppo spesso a trovare il figlio e in qualche caso anche a riprenderselo. Questo fenomeno è attualmente molto più raro e a mio avviso è indice di una migliore comprensione realistica della situazione, probabilmente favorita da vissuti di una maggiore accettazione da parte della società.
L’articolo 23 della 104 del 5 febbraio 1992, “legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, è dedicato alla “rimozione di ostacoli per l’esercizio di attività sportive, turistiche e ricreative”. Notevoli sono stati i progressi anche in questo campo. Ad esempio è frequente trovare nelle piscine pubbliche o sui campi da sci delle persone con disabilità intellettiva. C’è da augurarsi che si diffondano sempre di più altre iniziative, ad esempio quelle relative alla pratica delle attività tipiche dell’atletica (corse veloci e di resistenza, salti, lanci ecc.) e di varie altre attività sportive individuali o di gruppo.
Formazione professionale e lavoro
Relativamente alle possibilità di orientamento e formazione professionale per i ragazzi con disabilità intellettiva la realtà italiana è complessa, differenziata e spesso insoddisfacente. In una realtà migliore di quella attuale gli adolescenti con disabilità intellettiva dovrebbero avere la possibilità di frequentare scuole professionali con risorse di personale e con insegnanti adeguati. Spesso questo non avviene e gli adolescenti con disabilità intellettiva vengono iscritti in altre scuole (Licei scientifici o classici compresi). Questa scelta è dovuta a più fattori, ma il principale è costituito dal fatto che in molte realtà regionali i corsi professionali sono scarsi e/o male organizzati e/o con personale poco sensibile alle problematiche dell’integrazione. Mi sembra opportuno sottolinearlo anche se vi sono realtà molto bene organizzate e all’avanguardia: si tratta tuttavia di una minoranza.
Preso atto di questa carenza diffusa, si deve tuttavia sottolineare che fin dagli anni attorno al 1970 l’Italia ha favorito esperienze di orientamento, di qualificazione professionale e di inserimento lavorativo all’avanguardia.
Nel periodo di formazione è risultata cruciale la possibilità di un tirocinio, tanto più utile quanto più consistente in una alternanza scuola-lavoro.
In alcuni casi (ad esempio a Genova) si è preferita una formazione in situazione, cioè insegnamento durante il tirocinio e non in una scuola tradizionale.
Per la buona riuscita dell’esperienza risultarono fondamentali:
- un progetto di formazione mirato, analitico e condiviso con i genitori e i datori di lavoro;
- inserimento degli insegnanti-operatori nella realtà dell’azienda (cioè nella situazione lavorativa);
- un compenso all’azienda (equivalente ad esempio al 50% del guadagno netto di un operaio o poco più);
- un compenso alla persona con disabilità (ad esempio 30% del guadagno di un operaio);
- Risoluzione di problemi operativi connessi con l’assicurazione, la responsabilità civile, la mensa, il trasporto ecc.
Come ogni adulto, anche le persone con disabilità intellettiva provano benessere quando riescono ad essere utili, quando vedono che producono qualcosa (motivazione di competenza). Il lavoro può offrire questa opportunità.
Da almeno quaranta anni in Italia si sono cercate alternative ai laboratori protetti e ai centri occupazionali. Consideriamo alcune tipiche tipologie.
- Inserimento nell’azienda commerciale, agricola, artigianale ecc. dei genitori o di parenti stretti. Teoricamente si potrebbe pensare che in questa situazione la persona con disabilità intellettiva fatica a diventare indipendente. Questo è un rischio reale. Sulla base delle esperienze da me conosciute mi sembra comunque di poter dire che si tratta di una situazione con molti aspetti positivi. Accettazione e flessibilità permettono in particolare di chiedere alla persona il massimo di ciò che può dare, evitando di sottoutilizzarlo.
- Inserimento guidato in una azienda. Cruciale è il monitoraggio, con coinvolgimento della famiglia, del datore di lavoro e dei colleghi.
- Inserimento nelle aziende pubbliche: uffici pubblici, ospedali, scuole. Si tratta di situazioni meno monitorate delle precedenti. Dati i fini non commerciali di queste istituzioni la persona risente meno delle conflittualità legate al bisogno di produrre e più facilmente viene accettato ciò che sa fare. Nelle realtà in cui vi sono bambini e ragazzi le persone con disabilità intellettive sembrano inoltre ulteriormente motivate.
- Inserimento nelle cooperative sociali. Si tratta di una realtà in progresso. La tipologia è estremamente diversificata. Quando il rapporto fra persone con disabilità e altri lavoratori tende ad essere paritario si utilizza anche la parola “integrate”. I campi di occupazione privilegiata sono: agricoltura, produzione di materiale per imballaggio, ceramica, falegnameria, manifatture, pulizie.
Opportunità residenziali e vita autonoma da adulti
“Cosa succederà dopo di noi?” Questa è una preoccupazione costante dei genitori di persone con disabilità intellettiva. Si tratta di una preoccupazione tendenzialmente proporzionale (in senso inverso) al grado di autonomia che si vede nel figlio o nella figlia. Tra le autonomie possibili vi è anche quella di vivere al di fuori della famiglia di origine, ma non in un Istituto. Anche se con difficoltà notevoli si stanno moltiplicando situazioni alternative alla istituzionalizzazione.
Cruciale è il livello di autonomia della persona con disabilità intellettiva. Partendo da un livello minimo ad un livello massimo abbiamo le situazioni che seguono.
Prima di presentarle sono tuttavia opportune due premesse:
- nelle realtà considerate le persone con disabilità intellettiva vivono assieme ad altre persone che hanno bisogno di assistenza e che hanno disabilità diverse;
- per motivi organizzativi nella stessa realtà possono esserci persone di assai diversa gravità (questo soprattutto nei piccoli comuni).
Di norma vengono chiamati Centri residenziali le abitazioni per persone con autonomia (media) così scarsa da richiedere un rapporto assistenziale di un operatore per ogni persona disabile.
Le “comunità alloggio” tendono ad essere caratterizzate dalla presenza di un numero limitato di persone disabili (da cinque a otto), che vivono nello stesso appartamento assieme ad alcuni operatori (ad esempio da due a quattro). Spesso c’è un ulteriore sostegno di persone per le “faccende domestiche” (pulire, lavare, stirare ecc.).
Le case famiglia accolgono di norma pochi ospiti e sono gestite da persone (ad esempio marito e moglie) che risiedono stabilmente nell’abitazione. Si tratta di una realtà di cui usufruiscono soprattutto minori con disabilità o disagi diversi dalla disabilità intellettiva, associati a carenza o assenza di sostegno familiare proprio.
Vi sono infine le situazioni più adeguate alle persone con disabilità intellettiva che abbiano una buona autonomia e che non vivano in famiglia: gli appartamenti per poche persone abbastanza autonome, aiutate da collaboratori domestici e operatori sociosanitari solo per il minimo indispensabile (anche se con una supervisione costante).
Fonti bibliografiche principali
Ripreso, sintetizzato e modificato con aggiornamenti (01.01.2023), da
Vianello, R (2006). La sindrome di Down. Bergamo: edizioni Junior.