La cecità in sé (senza considerare le situazioni in cui essa è in comorbilità con altre disabilità; ad esempio sordità o paralisi cerebrale infantile), in modo diretto o indiretto (ad esempio a causa di una particolare educazione) può favorire particolari disturbi nello sviluppo della personalità.
Secondo i dati della letteratura specifica la risposta è che la cecità in sé non comporta rischi di disturbi psicopatologici significativamente superiori a quelli presenti nella popolazione in generale, anche se possono essere più frequenti situazioni che potrebbero trarre giovamento da un aiuto psicologico.
A titolo esemplificativo riportiamo i risultati di una ricerca.
Huure e Aro (1998) hanno studiato, per mezzo di questionari self-report lo sviluppo psicosociale in un gruppo di 54 adolescenti (40 maschi e 14 femmine), frequentanti la scuola normale in Finlandia. L’età media era 14 anni. Essi sono stati confrontati con un gruppo di controllo composto da 385 adolescenti vedenti (172 maschi e 213 femmine) aventi la stessa età media. I risultati indicano che il gruppo di adolescenti con deficit visivo non differiva da quello di controllo nella frequenza di depressione, sintomi di stress o nei rapporti con i genitori e i fratelli. Gli adolescenti con deficit visivo avevano meno spesso tanti amici e riportavano più spesso di incontrare difficoltà nel fare amicizia. L’autostima, i risultati scolastici e le abilità sociali delle adolescenti con deficit visivo erano minori rispetto alle compagne vedenti. Gli autori concludono che lo sviluppo psicosociale di molti adolescenti con deficit visivo è simile a quello dei loro coetanei vedenti. Alcune adolescenti con deficit visivo potrebbero comunque aver bisogno di supporto psicosociale più delle compagne vedenti.
L’utilità di fornire supporti agli adolescenti con disabilità visive è confermata anche da una ricerca condotta da Kef e Decović (2004) con 178 adolescenti ciechi o ipovedenti, confrontati con 338 adolescenti vedenti al fine di valutare la relazione fra il loro benessere e il supporto dei genitori o dei coetanei.
È opportuno essere molto prudenti nell’interpretazione dei risultati delle ricerche con individui non vedenti.
Hobson e Anthony (2010) hanno condotto uno studio follow-up con nove bambini non vedenti e sette vedenti, che otto anni prima avevano soddisfatto i criteri diagnostici per l’autismo (DSM). Sono stati formati due gruppi confrontabili per età cronologica e abilità verbale. Coerentemente con quanto fatto in passato tutti gli adolescenti sono stati di nuovo valutati (con CARS; Schopler, Reichler, and Renner, 1986; e BCPD, Sherman, Shapiro, & Glassman, 1983). Ben otto su nove partecipanti non vedenti non soddisfacevano più i criteri del DSM per una diagnosi di autismo, mentre questo avveniva per tutti e sette i partecipanti vedenti.
Come anticipato è opportuno essere molto prudenti nella valutazione dei bambini non vedenti utilizzando strumenti e criteri elaborati per i vedenti. In questo caso si può ipotizzare che non si sia trattato, per i partecipanti non vedenti, di una guarigione nell’adolescenza, ma di una errata “patologizzazione” nell’infanzia.

Per i riferimenti bibliografici di queste pagine vedi Riferimenti bibliografici generali

Tratto, con modifiche (01.01.2023), da Vianello, R., e Mammarella I. C. (2014). Psicologia delle disabilità. Bergamo: edizioni Junior.