Anche se fin dalla sua istituzione la normativa1 ha chiaramente evidenziato il ruolo dell’insegnante di sostegno, a volte esso è inteso in senso riduttivo sia dagli altri insegnanti, sia dagli stessi insegnanti di sostegno. Un insegnante di sostegno dovrebbe avere adeguate conoscenze sulle caratteristiche dell’allievo (ad esempio sulle eventuali disabilità sensoriali o motorie o intellettive o di personalità) e competenze didattiche specialistiche. Questo tuttavia non è sufficiente.

Cruciale è la capacità di collaborazione con gli altri insegnanti, in modo da favorire un adeguato insegnamento anche quando l’allievo con disabilità non può usufruire della sua presenza. Ideale è la situazione in cui favorisce interventi complessivamente coerenti da parte di tutti gli insegnanti. Da molti anni si sa che il lavoro in aula e la collaborazione con i colleghi producono risultati complessivamente migliori di quelli che si ottengono in un rapporto individualizzato sistematicamente fuori dall’aula.

La sua funzione di favorire la collaborazione dovrebbe estendersi anche oltre al rapporto con gli altri insegnanti. Mi pare dovrebbero essere presi in considerazione almeno tre livelli.

  • Costante dovrebbe essere un coordinamento dell’intervento educativo con i genitori (e i familiari in genere quando altri componenti della famiglia, come nonni e fratelli maggiori, sono coinvolti). L’esperienza mi invita a suggerire di evitare un atteggiamento da “docente” anche nei loro confronti e cioè di voler insegnare come ci si comporta a casa o di pretendere che in nome della coerenza dell’intervento educativo i familiari si comportino nel modo suggerito dall’insegnante. Ideale è un atteggiamento di ascolto che favorisca in loro la trasmissione di informazioni. Troppo spesso, in queste situazioni, l’insegnante è più volto a valutare che non a cercare di capire.
  • Con gli operatori socio-sanitari (neuropsichiatra infantile, psicologo/a, logopedista, fisioterapista, psicomotricista) è spesso necessario saper prendere l’iniziativa, contattandoli, chiedendo un appuntamento, facendo richieste scritte (siamo nell’era di internet!) per chiedere un appuntamento, per sollecitare un aggiornamento della diagnosi, per chiedere chiarificazioni dopo aver riflettuto su quanto ci si è detti in un colloquio ecc.
  • Con gli insegnanti di un ordine di scuola inferiore o superiore per favorire meglio possibile il passaggio alla scuola dell’infanzia, a quella primaria, a quella secondaria di primo grado, a quella secondaria di secondo grado. Fondamentale è la trasmissione anche per iscritto (ma non solo) di tutte le informazioni a disposizione (individuazione, certificazione, diagnosi funzionale, profilo dinamico funzionale, piano educativo individualizzato, eventuale quaderno o registro dedicato all’allievo/a ecc.) compresa la storia della propria programmazione scolastica, con i tentativi andati a buon fine e quelli che non hanno avuto successo.

Note: 1 La figura dell’insegnante di sostegno è prevista dall’anno 1977-78 (C.M. 216 del 1977 e legge 517 del 1977). La C.M. 199 del 1979 sottolinea che l’insegnante di sostegno è pienamente coinvolto nella programmazione educativa e partecipa a pari titolo alla elaborazione e alla verifica delle attività di competenza dei consigli e dei collegi dei docenti. Inoltre essa puntualizzava che il rapporto massimo insegnante di sostegno: allievi in situazione di handicap doveva essere di 1:4 anche per la scuola elementare (e non 1:6 come previsto dalla C.M. 216 del 1977). Successivamente ci sono state aggiunte e modifiche, ma di fatto, grazie alle deroghe, da molti anni il rapporto medio fra insegnante di sostegno e allievi in situazione di handicap è di circa 1 a 2 (o inferiore).

Tratto, con modifiche, da Vianello, R. (2012). Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive. Trento: Erickson.
Renzo Vianello, 01.01.2023