Particolarmente per le situazioni di ADHD c’è una piena concordanza che gli interventi più proficui sono quelli attuati con piena collaborazione fra operatori, famiglia e scuola. Si usa spesso il termine multifocale. Il coordinamento dovrebbe essere attuato soprattutto grazie all’iniziativa degli operatori dell’ASL. Di fatto le carenze di risorse e la necessità di una competenza specifica proprio relativamente all’ADHD limitano notevolmente la quantità di interventi che si realizzano in Italia. Interventi di tipo privato suppliscono solo in minima parte a queste carenze. 

Essenzialmente abbiamo tre tipi di interventi. 

  1. intervento farmacologico;  
  2. intervento psicologico (o psicoeducativo) sul bambino;
  3. intervento psicologico e farmacologico combinato.

Il primo è molto diffuso e, una volta fatta la diagnosi di ADHD, considerata la sua gravità, richiede un tempo ridotto da parte di chi propone il farmaco. 
Il secondo è molto più raro e più impegnativo e spesso si  realizza grazie all’impegno economico dei familiari. E non tutte le famiglie se lo possono permettere. 
Il terzo combina l’intervento farmacologico con quello psicologico. Come il precedente si realizza (quello psicologico) molto più spesso a livello privato che pubblico. 

Non mancano comunque interventi pubblici da parte di ASL o coordinati da strutture universitarie molto ben condotti e tali da indicare quali sono le modalità più efficaci per raggiungere i risultati migliori.  

Per quanto riguarda l’intervento farmacologico si veda alla fine di queste pagine l’approfondimento allegato. 

Un importante studio sull’argomento (MTA group, 1999), condotto negli Stati Uniti tra il 1992 e il 1994 e denominato MTA (Multimodal Treatment Study of Children with ADHD), finanziato dal National Istitute of Mental Health ha coinvolto 579 bambini con ADHD di età compresa tra i 7 e i 9 anni e le loro rispettive famiglie e scuole di appartenenza. I trattamenti presi in considerazione furono 3: quello farmacologico, quello psicoeducativo intensivo (che includeva parent trainig per i genitori, intervento scolastico e intervento psicoeducativo comportamentale per il bambino) e quello combinato (che comprendeva il trattamento farmacologico e psicoeducativo in contemporanea). I bambini del gruppo sperimentale furono inseriti casualmente in uno dei gruppi che seguivano i possibili tipi di trattamento. Il gruppo di controllo, invece, seguiva i normali consigli del medico curante. Gli interventi furono effettuati in maniera molto rigorosa e presso centri clinici e universitari altamente specializzati. 

I risultati consentono almeno due considerazioni cruciali. 

  • L’intervento psicologico, in presenza di un intervento farmacologico, consente di ottenere dei benefici in più: migliora le relazioni con i coetanei, aumenta il senso di soddisfazione e di efficacia dei genitori, permette l’utilizzo di dosi minori di farmaco. 
  • Ogni intervento deve essere personalizzato, essendo l’ADHD una condizione che si associa spesso ad altri disturbi (comorbilità) e molto influenzato dal contesto sociale di riferimento (famiglia e scuola innanzitutto). 

La modalità di intervento più diffusa è definita cognitivo-comportamentale. Questo non è tuttavia molto informativo. Alcune proposte sono soprattutto comportamentali e l’influenza dell’approccio cognitivista è molto ridotta, mentre in altre prevale la cultura cognitivista. In ogni caso vengono di norma proposti  interventi che hanno lo scopo di modificare l’ambiente sociale e fisico in modo che sia proprio il contesto a favorire i processi di autoregolazione deficitari nell’ADHD. Tali interventi mirano a garantire al bambino maggiore strutturazione del contesto (sia spaziale che temporale) e, di conseguenza, una minore possibilità di distrazione e di confusione. Ovviamente tale intervento risulta efficace quanto più familiari e insegnanti sono collaborativi. 

Per quanto riguarda l’intervento diretto sul bambino esso ha spesso come obiettivo primario l’obiettivo (cognitivista) di favorire progressivamente la consapevolezza delle proprie difficoltà e di fornire strategie per affrontarle. 

Chi preferisce le tecniche comportamentali si basa prevalentemente sui principi del condizionamento operante, in base al quale ad ogni comportamento segue una conseguenza che, se positiva (rinforzo), aumenterà la probabilità che quel comportamento si verifichi nuovamente, se negativa invece ne diminuirà la probabilità di verificarsi. Questa tecnica viene chiamata “tecnica dei gettoni” (token economy). 

Chi ha un orientamento non comportamentale preferisce, soprattutto per i casi meno gravi, usare altre modalità per “rinforzare” e al posto del gettone può esserci ad esempio l’approvazione verbale, il condividere la constatazione di un buon risultato ecc. Inoltre (ad esempio in attività piacevoli semi-ludiche o nel fare assieme i compiti scolastici per casa) vengono proposte altre tecniche cognitive, quali, ad esempio, le autoistruzioni verbali o il problem solving (si veda Meichenbaum, 1977, 1990; Cornoldi, De Meo et al. 2001). 

Con questo tipo di approccio si cerca anche di lavorare:

  • sul controllo e la consapevolezza delle proprie emozioni (in situazioni stressanti reali già vissute o immaginate); 
  • sugli aspetti attributivi (valorizzando lo stile attribuzionale interno che comporta il ritenere che i risultati del proprio comportamento siano da ricondursi alle strategie messe o no in atto e all’impegno finalizzato che è stato messo); 
  • sugli aspetti motivazionali.
Per i riferimenti bibliografici di queste pagine vedi Riferimenti bibliografici generali

Alcune  parti sono state tratte, con modifiche, da 
Cornoldi, C. (2023) (a cura di). I disturbi dell’apprendimento. Bologna: Il Mulino.  
Vianello, R., e Mammarella I. C. (2014). Psicologia delle disabilità. Bergamo: edizioni Junior. 

Renzo Vianello e Anna Maria Re, 03.02.2023